"Dialogo con gli antichi": l'evento de 'I Persiani' raccontato da un'alunna del Liceo classico

Sabato 1° marzo gli alunni dell’Istituto d’Istruzione Superiore “Varano-Antinori” di Camerino, nei vari indirizzi classico, scientifico, linguistico, scienze umane e ragioneria e i liceali del Classico “Francesco Filelfo” di Tolentino hanno avuto il piacere di assistere alla rappresentazione della tragedia “I Persiani” di Eschilo, a seguito della quale, a corollario e approfondimento di alcune tematiche, lunedì 3 marzo si poi è tenuta una conferenza presso la sede attuale della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino. Relatrici del convegno sono state la professoressa Giulia d’Agnone, docente presso la medesima facoltà di UNICAM, esperta in diritto dell’UE, e la professoressa Jessica Piccinini, docente di storia greca presso la facoltà di Lettere Classiche dell’Università di Macerata.

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Immagino che a molti di noi, almeno una volta, sia capitato di chiedersi se la tragedia greca abbia ancora qualcosa da insegnare, se un’opera appartenente ad un tempo tanto remoto abbia ancora qualcosa da comunicarci, se serbi qualcosa di prezioso. La domanda che sorge spontanea è “Per quale motivo le opere antiche continuano a essere rappresentate in un mondo che ha in apparenza mutato radicalmente il proprio volto?” Eppure, le rappresentazioni di tragedie e commedie classiche si susseguono, instaurando ogni volta un dialogo incessante tra passato e presente, un sentiero che ci congiunge col passato, nel quale possiamo perderci e rinvenire insegnamenti da custodire con cura. La tragedia “I Persiani”, la più antica pervenutaci per intero dal mondo antico, fu rappresentata per la prima volta ad Atene nel 472 a.C.; dopo millenni, tale opera è stata magistralmente portata in scena dalla compagnia teatrale “Piccola Ribalta” presso l’Auditorium Benedetto XIII di Camerino.

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Le voci vibranti, i volti forgiati a manifestare il dolore e le movenze scultoree degli attori hanno insufflato il respiro ai personaggi eschilei, che  dimorano ora nelle menti degli osservatori in forma di pensiero, di fluida riflessione, di nitida immagine; la loro recitazione incisiva, il compenetrarsi di musica e monologhi solenni e complessi hanno reso pienamente il carattere cupo e luttuoso di cui l’opera è pervasa: è così che una rappresentazione, vincolata al momento, diviene perenne e multiforme e un personaggio vive nella memoria di uno spettatore.

Sono state due ore intense, che hanno visto il giovane pubblico catturato dalla solennità della narrazione, dall’accuratezza dei dialoghi, dei vestiti, della musica e della scenografia. Nonostante fossero presenti alunni provenienti da indirizzi diversi, la storia è risultata comprensibile alla maggior parte, seppur naturalmente complessa. Infatti, la difficoltà della vicenda è stata pienamente compensata dal talento degli attori e dal lavoro che abbiamo avuto il piacere di assaporare (foto 4-5).

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La trama dell’opera si impernia sugli eventi storici relativi alla seconda Guerra Persiana. La scelta di redigere una tragedia di argomento storico era indubbiamente singolare per l’epoca: i tragediografi predilessero sempre il motivo mitologico a quello storico, come si può desumere dagli scritti che ci sono pervenuti.  A quanto pare, però, Eschilo non fu il primo a fare della storia il pilastro della sua tragedia: prima di lui Frinico aveva redatto un’opera dalla trama intessuta sulla presa di Mileto, di argomento prettamente storico pertanto e non riscosse successo, a differenza del successore. La tematica bellica per cui l’autore propende fa de “I Persiani” una tragedia più che mai attuale: le Guerre Persiane si combatterono in Grecia tra il VI e il V secolo a.C., eppure, nonostante una notevole distanza cronologica ci separi da questi eventi, la nostra epoca è lacerata da sanguinosi conflitti. Se ne può empiricamente concludere che, malgrado il mondo abbia mutato i suoi caratteri, malgrado le modalità con cui i conflitti si combattono siano radicalmente mutate, l’uomo persevera nei suoi errori, ignorando gli insegnamenti che la storia di giorno in giorno gli trasmette, mostrandosi indifferente ai moniti degli antichi.

Sotto gli occhi dell’osservatore ateniese del V sec. a.C. si parano figure dagli abiti inusuali, atipici, che compiono gesti singolari, quali la proskynesis, ossia la prostrazione, come segno inequivocabile di sottomissione, al cospetto di un esponente della famiglia reale. Un greco percepiva come estranea la gestualità degli attori che calcavano la skene del teatro del V secolo: l’atto di prostrarsi, infatti, era l’icastica espressione della condizione di sudditanza al sovrano in cui i Persiani versavano, stato di subordinazione decisamente deprecato dagli Elleni. L’effetto di distanza, prodotto dall’innesto sapiente di tali particolari, sopperiva all’eccessiva vicinanza storica dei fatti narrati, rispetto ad una vicenda mitica.

Gli studenti che hanno avuto l’opportunità di assistere alla rappresentazione, alla stregua dei Greci del V secolo a.C., sono stati improvvisamente catapultati in una stanza del palazzo reale di Susa, in Persia, catturati dalle inquietanti congetture degli attori.

 I dignitari del re Serse sono turbati da oscuri presagi: da tempo il sovrano è partito alla testa di un esercito multiculturale, una distesa sterminata di uomini provenienti da tutta la Persia, fior fiore dei Persiani, eppure a Susa non è ancora giunta notizia dell’esito della battaglia. A corte ci si interroga sulle sorti del conflitto: una vendetta divina avrà stroncato la potenza adamantina di un’armata tanto inarrestabile? Lo φθόνος θεῶν (invidia divina) che gli dèi omerici riversavano sugli uomini ha posto un limite alle velleità espansionistiche della Persia?

Nell’avvicendarsi delle ipotesi, fa il suo ingresso sulla scena la regina Atossa, madre del re Serse e moglie del defunto sovrano Dario, anch’egli sconfitto dai Greci nella sanguinosa battaglia di Maratona. Straziata dal pensiero di un sogno presago, ella narra di aver visto nel sonno due donne di ammirevole eleganza, imponenti nella statura, una vestita con sontuosi abiti orientali e l’altra con abiti occidentali, fronteggiarsi in un alterco. Il sovrano Serse mediava per appianarne le controversie, mentre le due figure femminili si tramutavano in puledre, docile e accondiscendente quella che rappresentava la Persia, recalcitrante quella greca, che ha infine la meglio sul sovrano disarcionato. I dignitari, colti da un timore indomabile, consigliano alla regina di offrire sacrifici agli dèi per guadagnarne il favore e stornare le sventure. La donna si risolve a sacrificare alle divinità, ma, prima di congedarsi dai suoi fedeli notabili, li interroga circa i costumi dei Greci: come combattono? Dove si trova Atene? Perché mio figlio ha pensato di conquistare questa città? Che modello politico adottano?

Con un efficace espediente teatrale Eschilo fa rispondere i dignitari persiani con  battute che meglio suscitano nel popolo ateniese, spettatore e reduce dalla tragiche vicende, un’iniezione di autostima e di orgoglio: Atene è lontana, ma se conquistata, tutta la Grecia cadrebbe  assoggettata al re; del resto, in passato, ha già annientato il grande esercito di Dario. I soldati ateniesi impugnano non l’arco come i Medi, ma la lancia,l’arma degli uomini coraggiosi che sanno combattere il nemico corpo a corpo, di nessun uomo si dicono schiavi o sudditi.

L’elenco delle sterminate forze persiane contrapposte all’esigua armata greca e il dialogo tra la regina Atossa e i suoi dignitari sono funzionali costruire un’autocelebrazione del popolo ellenico. Ogni parola pronunciata dagli astanti infligge un colpo fatale alle ultime vacillanti speranze della donna, la quale stenta a credere che un tale popolo che vanta di non essere “suddito né servo di nessun uomo” possa resistere all’armata persiana. 

Segue l’arrivo del messaggero proveniente da Salamina, foriero di terribili notizie: l’armata invincibile allestita da Serse è stata sconfitta, tra le file dei Persiani si contano innumerevoli morti e le vite dei più valorosi generali sono state stroncate. Un greco, sedicente traditore, ha persuaso il Gran Re che, non appena fosse scesa la notte, i Greci sarebbero fuggiti in ogni direzione. Che provvedesse, dunque, e schierasse la flotta in modo tale da sorprenderli nella fuga. Serse, inavveduto, ha dunque ordinato ai suoi alacri soldati di disporsi in tre file al tramontar del sole, promettendo che, se l’operazione avesse avuto esito negativo, a tutti sarebbe stata tagliata la testa. Calate le tenebre, la flotta si è attenuta agli ordini, ma all’alba gli ignari soldati persiani hanno udito il solenne peana greco rombare e alzarsi al cielo; fiutato l’inganno, è imperversata la battaglia. Da principio le veloci triremi greche non sono prevalse sulle imponenti avversarie, ma, giunte nello stretto tratto di mare che separa Salamina dalla Grecia continentale, le navi persiane hanno preso ad urtarsi, sono divenute ingestibili: “i remi si spezzavano, narra il messo,  i marinai esanimi precipitavano in mare sotto i colpi fatali della flotta ellenica, le triremi greche, veloci e maneggevoli, abbattevano le imbarcazioni del Gran Re”.

Il resoconto del messaggero assume tratti apocalittici, dipinge la catastrofe agli occhi del pubblico ateniese del 472 a.C., che serba memoria del tragico evento vissuto: “Sappi questo, soltanto: che mai in un solo giorno morì un numero così grande di uomini”.

 L’orrore non è ancora terminato: i soldati persiani più valorosi, schierati da Serse sull’isola di Salamina, sono stati tutti sterminati dagli opliti greci. Serse, tuttavia, è salvo: convinto di soggiogare il nemico, il sovrano osservava la battaglia dalla vetta di un’altura sopra l’isola. Compresa l’inesorabile sorte del combattimento, egli si è strappato le vesti ed è fuggito verso la Persia, lasciando il generale Mardonio a svernare nell’Ellade.  La regina Atossa si strugge per il funesto destino dei Persiani e ne commisera l’atroce fine; ella, in accordo con i dignitari di corte che la circondano, seguita ad attribuire la sconfitta a una presunta vendetta divina.

Eppure le sventure umane non si devono all’ira vendicatrice di un dio, come finalmente spiega l’anima del defunto sovrano Dario, evocata dagli inferi: è l’uomo che nella sua insaziabile avidità sconfina oltre i limiti imposti dalla sua stessa natura. 

 “I Persiani” è proprio la tragedia della hybris, della tracotanza, e Serse è il paradigma dell’uomo che travalica i limiti a lui concessi. Egli incorre pertanto nel castigo divino che si realizza attraverso la ate, l’ “accecamento”, la “rovina”. Ma è anche il paradigma del capo politico, che,nel suo accecamento e nella sua tracotanza, finisce per portare alla rovina un ‘intero popolo, perché il disordine che l’uomo crea si abbatte su diversi livelli: non solo su di sé, ma sulla famiglia, sulla collettività e sulla polis, come aveva già esemplarmente insegnato Solone nella Eunomia

La rovina non si deve dunque ad un demone invidioso su cui l’uomo non ha potere, bensì alla superbia a cui l’uomo protende e la sciagura che si abbatte inesorabile su di lui e sugli altri scaturisce dalle sue azioni tracotanti. A tale rovina si innesta un processo didattico ben compendiato nella celebre massima eschilea del pathei mathos, letteralmente “l’apprendimento attraverso la sofferenza”:perché solo dalle sciagure, non dalla gioia né dal benessere, l’uomo di ogni tempo  trae  un insegnamento. In quest’ottica l’opera diviene un monito rivolto al pubblico greco: da un atto di hybris non può che originarsi la distruzione, che Eschilo riconduce alla punizione divina.

L’inclinazione dell’uomo alla tracotanza pare essere confermata da esempi moderni: osservando la realtà con il filtro della tragedia e con le lenti del diritto, durante il convegno a Unicam sono state sottolineate varie violazioni delle norme del diritto internazionale e dei patti stipulati dagli Stati. Le norme che regolano i rapporti internazionali non sono forse dei limiti finalizzati a garantire la convivenza pacifica e il rispetto dei diritti fondamentali? Alcuni leader politici contemporanei sono quindi equiparabili a Serse per la propensione a trasgredire un limite segnato. Atto di hybris per il Gran Re fu ordinare all’esercito persiano di scavare un canale attraverso il monte Athos e di costruire un ponte di navi sull’Ellesponto (l’attuale Stretto dei Dardanelli) che agevolasse l’accesso alla Greci, una vera e propria sfida alla natura! I capi politici di oggi non esitano a oltrepassare i limiti loro imposti, pur trattandosi però di trasgressioni in parte differenti da quelle poste in risalto dall’opera eschilea.

E quando l’hybris è commessa da un capo politico, come ci insegna chiaramente Eschilo nella tragedia, la sua responsabilità finisce per ricadere non solo sulla sua esistenza, ma su un intero popolo.

 Da questo punto si è partiti per discutere e dibattere tra le due docenti di Unicam e Unimc sull’antitesi proposta nella tragedia tra Occidente e Oriente, tra mondo di uomini che si professano non sudditi di alcun sovrano e sudditi in un governo assolutista e teocratico. I Greci, identificatosi nel popolo ateniese, sono i fondatori e sostenitori orgogliosi dell’ordinamento politico che li regola, la democrazia, che permette loro (o per lo meno ad alcuni di loro) di partecipare direttamente alla vita politica della polis e di non essere assoggettati a nessuno. Essi godono della libertà di parola (parresia), della libertà di parlare e confrontarsi in assemblea (isegorìa) e sono uguali davanti alla legge (isonomìa), potendo esercitare i lori diritti attraverso i vari organi istituzionali. Sulle decisioni e sulla vita diretta della Stato, nei suoi confini e nei rapporti con l’estero, nell’ordinamento politico ateniese un potere limita l’altro: tutti concetti che sono ispiratori degli ordinamenti democratici odierni, pur con le dovute differenze. 

 La donna greca, nel sogno, era del resto recalcitrante al despota persiano ed era riuscita poi a liberarsi e disarcionarlo! In netta opposizione con tale tratto della civiltà greca, si colloca il modello politico dispotico radicato in Persia: la regina Atossa, afferma, non a caso, che Serse non dovrà mai rendere conto a nessuno del suo operato politico e rimarrà il legittimo sovrano di Persia, anche se sconfitto. Se ne deduce che il suo potere fosse assoluto,” sciolto da tutto”, ossia indipendente da qualsiasi altra autorità.

Il trionfo militare descritto magistralmente nei versi di Eschilo, sancì definitivamente la vittoria greca sulla potenza persiana e la distanza culturale e politica del mondo occidentale, che, nei secoli, a venuto a caratterizzarsi, pur nei tanti limiti e difetti,  come il mondo democratico.

 Ma cosa sarebbe accaduto se l’Occidente si fosse piegato all’Oriente, se nelle guerre rievocate nella tragedia il vincitore fosse stato proprio Serse? La domanda è stata formulata dalla prof. Di Paolo,moderatrice del dibattito,  ricordando, con tale interrogativo, le problematiche sollevate già da storici di chiara fama, non ultima la prof.ssa Eva Cantarella, già docente Unicam di “Storia del Diritto romano”. 

Gli studiosi immaginano che il volto dell’Europa e del mondo intero ne sarebbe uscito profondamente trasformato. Se Temistocle, strenuo fautore della resistenza greca, avesse vacillato nella sua forza morale e intellettuale, la cultura greca – ancora agli albori – sarebbe stata soffocata. La Grecia sarebbe divenuta una satrapia persiana, il nascente modello politico democratico sarebbe caduto nell’oblio e l’intera storia avrebbe mutato radicalmente il proprio corso.

Sono conseguenze su cui riflettere seriamente, pro o contro: le forme di governo dell’Occidente hanno avuto caratteriali peculiari, che dovremmo mirare a salvaguardare e perfezionare. 

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Lo stesso statista Pericle del V secolo, ci ricorda, spronandoci alla responsabilità: “Noi Ateniesi siamo gli unici a considerare chi rifiuta di occuparsi di politica (nel senso più nobile del termine) non un uomo tranquillo, ma un uomo inutile”

Su tali riflessioni, sul ruolo che in questo periodo tormentato può svolgere anche l’Unione Europea, consapevole della sua storia e dei princìpi a cui si è ispirata, formandosi, è proseguito il dibattito con gli alunni presenti,  partendo proprio da alcuni termini chiave del greco antico, che sono tuttora alla base della nostra lingua. 

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Possiamo essere certi che nel dià-logo complesso,a volte contradditorio, ma di certo sempre arricchente e pieno di spunti e di esempi storici, sapremmo costruire con più lungimiranza il nostro futuro, affrontando le problematiche di attualità, con delle solide radici identitarie a cui far riferimento.

Un grazie sentito al Dirigente Scolastico, prof. Francesco Rosati, il quale  ha fermamente sostenuto questo evento culturale, che ha visto un teatro gremito di giovani e un convegno stimolante, alla prof.ssa Michela Di Paolo, ideatrice del progetto, all’Amministrazione Comunale di Camerino, alle Università Unicam e Unimc: abbiamo avuto un’occasione per  confrontarci in modo più stimolante e vivo col mondo Classico e, soprattutto, per leggere meglio il nostro presente. 

Maria Sofia Tesei, IV Liceo Classico

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